La poesia fa male
Nanni Balestrini
Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?
In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.
Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.
Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.
Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.
Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.
In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.
Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.
Dopo Tommaso Di Dio, il nostro dodicesimo ospite è Lello Voce. Nato a Napoli nel 1957, è poeta, scrittore e performer è stato tra i fondatori del Gruppo 93 e della rivista Baldus. È uno dei pionieri europei della spoken music ed ha introdotto in Italia il Poetry Slam. Tra le sue pubblicazioni: Farfalle da combattimento (Bompiani, 1999 + CD), Il Cristo elettrico (No Reply, 2006), L’esercizio della lingua (Le Lettere, 2011 + Dual Disc), Piccola cucina cannibale (Squi[libri], 2012 + CD). Cura un blog su Il Fatto quotidiano.
(Lello Voce, foto di Barbara Colombo)
Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?
L’arte è, in linea di principio, una merce. Una merce pensante (nei casi migliori) ma una merce. Più si abbassa la qualità formale di questa merce (più è a ‘buon prezzo cerebrale’) più è vendibile, come accade per qualsiasi altra merce. Vale anche per la poesia. Dipende dal rapporto tra il valore d’uso e il valore di scambio di quella particolare poesia. Più sale il valore d’uso (la perizia formale, la profondità di riflessione, la complessità e l’intensità), più si abbassa il valore di scambio.
La cosa davvero interessante è che la poesia – anche quella formalmente complessa – sta acquistando uno spazio sempre maggiore, rispetto agli ultimi decenni del secolo scorso. Ma questo non dipende dalla qualità alta o bassa dei testi, dipende da un salto ‘mediale’, dal suo rifarsi orale, in qualche misura ‘spettacolare’, dal fatto che esce dai libri ed entra nei corpi. E ce n’è di complessa come di semplicistica, inutile, vergognosa. Ma, una volta fuori dai libri, o meglio, una volta che è diventata capace di stare tanto nei libri quanto sui palchi la sua capacità di diffondersi aumenta in maniera direi esponenziale e questo dipende dal fatto che la poesia è sempre stata un’arte orale, tranne che per pochi secoli e anche in quei pochi secoli non ha perduto le sue caratteristiche ‘vocali’ (ritmo, velocità, durata, ecc.). La poesia è nata musica e già Leopardi si lamentava del distacco della figura del poeta da quella del musico.
Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?
Se per buona poesia intendi una poesia dotata di complessità formale tale da renderla un’opera d’arte allora sì, certamente, anche se sarà difficile che possa vendere, allo stato, quanto vende qualcosa di più semplicistico, rozzo, o capace semplicemente di intrattenere il lettore (e l’ascoltatore) limitandosi a confermare un cliché. La gente adora i cliché, sono rassicuranti. La poesia di Nanni Balestrini ne è un esempio. Ha avuto una grande diffusione, ma non potrà mai stare alla pari con le scemenze di Francesco Sole o Rupi Kaur. Ma non ne vedo la necessità. Abbassare troppo il tiro, cercare un compromesso con ciò che la gente si aspetta che debba essere una ‘poesia’ è una pessima idea. L’unica cosa davvero democratica in arte è la possibilità di offrire a tutti la possibilità di crearsi gli strumenti per apprezzare opere formalmente complesse e profonde. Dare alle ‘masse’ ciò che le masse si aspettano non è democratico. È connivenza col nemico e tradimento della propria arte. Il vero Poetry slam è una maniera di democratizzare l’arte, ma non nel senso della sua dequalificazione formale, quanto dal versante della partecipazione comunitaria. Il poetry slam è una presa di responsabilità tanto politica quanto formale. Chi trasforma il PS in caberet da due soldi sbaglia. Magari lui vince, ma la poesia perde. L’arte è rischio. Chi non rischia e fa il piazzista a domicilio (instagram) di versetti stupidi con la poesia non ha nulla a che fare.
La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?
È la poesia in generale che da secoli ha un impatto sociale microbico. Ma forse, se la poesia avrà la capacità di abitare i suoi nuovi (ma già antichi) media, la voce, il corpo, il respiro allora qualcosa potrebbe cambiare. La poesia non conta nulla socialmente e politicamente, ad oggi, ma siamo uomini perché possediamo parole e la poesia è l’arte della parola. Non si possono sognare nuovi sogni con parole vecchie, usurate. Dunque… laureata o meno, il suo impatto sociale sarà equivalente alla sua capacità di inventare, scoprire nuove forme del discorso. Del discorso del potere, certo, per smascherarlo, ma anche del discorso della rivolta, per non lasciarla alla mercè dei soliti luoghi comuni (penso a tanto rap inutile, sciocco, capace soltanto di scandire parole d’ordine polverose). La libertà, come la morte, la schiavitù come la vita sono fatte di parole, prima di tutto. Sono una parola, sono anche un fatto linguistico e la poesia sta lì apposta per tenere in allenamento il linguaggio, come diceva Pagliarani. Anche se poi in campo non vanno gli allenatori, ma i giocatori. Com’è ovvio che sia. Che bisogno ci sarebbe, d’altra parte, di un’altra mosca cocchiera? Per quello bastano i divi del rock ‘n roll.
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