di Leonardo Tosi Foto Pioneer Press
In circostanze normali non avrei scritto della morte di George Floyd. Una delle regole a cui cerco di attenermi più scrupolosamente è non parlare di cose che non conosco. In questi casi, penso sia meglio lasciare la parola e la scena a chi ha studiato, a chi ha fatto esperienza, a chi ha vissuto e vive in prima persona. La morte di George Floyd però non è una circostanza normale.
George Floyd aveva 46 anni. Era originario di Houston, cresciuto in un quartiere conosciuto come Third Ward. Ha frequentato la Jack Yates High School ed era una star della squadra di football. Giocava come tight end, i compagni l’avevano soprannominato “Big Floyd” per la corporatura imponente. Uno di loro, Cyril N. White, ha detto al New York Times che Floyd era un gigante buono, “un comico nato, la classica anima della festa, uno molto alla mano”.
Floyd si era trasferito a Minneapolis quattro o cinque anni fa: trovava la città un luogo accogliente, che lo rendeva felice. Aveva cominciato le esercitazioni per diventare un autista di camion e lavorava come buttafuori al Conga Latin Bistro, il ristorante del suo locatore, Jovanni Thunstrom. Thunstrom ha dichiarato, sempre al New York Times, che nessuno aveva nulla di male da dire sul suo conto, e che ha perso un amico.
George Floyd è morto lunedì, sotto il peso di Derek Chauvin, agente di polizia bianco che lo teneva immobilizzato a terra, con il ginocchio premuto sul suo collo, impedendogli di respirare. Era stato fermato solo pochi minuti prima, accusato di falsificazione/contraffazione. Secondo le prime dichiarazioni della polizia di Minneapolis, Floyd è stato immobilizzato perché ha opposto resistenza al fermo, ed è morto a causa di un “Medical Incident”.
Due video, uno preso da una videocamera di sicurezza di un locale vicino al luogo in cui Floyd è stato fermato, l’altro girato da un astante, dimostrano che entrambe le affermazioni sono false. A meno che per “Medical Incident” non si intenda il soffocamento indotto da un ginocchio premuto sul collo.
Non abbiamo ancora specificato una cosa: George Floyd era un uomo nero.
Arrivati a questo punto, è il momento di rispondere a una domanda: perché sto scrivendo della morte di George Floyd? Perché parlo del suo caso, e non delle uccisioni di Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, Michael Brown, Eric Garner, o di tanti altri ancora?
Negli USA, gli afroamericani muoiono per mano dei bianchi da centinaia di anni. Il XIII Emendamento, che ha abolito la schiavitù, non ha arginato minimamente i soprusi nei confronti dei neri, né quelli compiuti dal cittadino semplice, né quelli ad opera della polizia, che, fa sempre bene ricordarlo, sarebbe l’organo deputato alla protezione della popolazione.
Secondo mappingpoliceviolence.org, la polizia statunitense nel solo 2019 ha ucciso 1099 persone. Il 24% di queste erano afroamericane, nonostante i neri siano circa il 13% della popolazione totale. È tre volte più probabile che un nero venga ucciso dalla polizia, rispetto a un bianco. Nel 99% dei casi gli agenti non vengono accusati di nessun crimine.
This is America.
Come ho detto all’inizio, però, la morte di George Floyd non è una circostanza normale.
Non lo è, nemmeno in un Paese che ha reso normalità i soprusi della polizia sulle minoranze che fanno parte della sua popolazione; nemmeno in una società che ha reso normale assistere ad episodi di violenza inaudita, di ogni tipo.
L’omicidio di George Floyd è un paradigma.
Il video in cui è ritratto fa gelare il sangue, provoca sgomento profondo, ti fa cadere nell’oscurità. È una delle cose più atroci, disgustose e inumane che abbia visto.
Un’agonia di dieci minuti in cui un “uomo”, in posizione di privilegio e potere, ne uccide un altro solamente perché può farlo. Con le mani in tasca, con strafottenza, spalleggiato da un collega (dai tratti orientali, oh the irony!), sfidando con lo sguardo le persone che si sono riunite intorno a lui, a chiedere pietà per la sua vittima.
Cercano di metterlo di fronte all’evidenza: George è ammanettato, non può nuocere. Non respira, se ne lamenta più volte lui stesso. Comincia a sanguinare dal naso. Perde conoscenza. Ottengono in risposta solo ulteriori gesti di sfida. Chauvin sfida Floyd ad alzarsi, sfida gli astanti ad intervenire, con la mano sul calcio della pistola. Dai suoi occhi traspare arroganza, senso di superiorità, totale assenza di empatia.
C’è chi sostiene che il video non debba essere guardato né diffuso, che non ci sia bisogno della pornografia della violenza per riconoscere, nel 2020, l’enorme problema della società occidentale, e di quella statunitense in particolare, con il razzismo e i soprusi nei confronti dei più deboli. Probabilmente è vero.
Billie Holiday, dal 1939, ha cantato strenuamente queste parole:
“Southern trees bear a strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root
Black bodies swinging in the southern breeze
Strange fruit hanging from the poplar trees”.
Da allora non è cambiato nulla, o quasi.
Per cui credo ci sia bisogno di vederlo, quel video. Credo ci sia bisogno di farsi ancora scioccare, di rimanere attoniti, di sentire un pugno nello stomaco, di perdere il respiro ad ogni “I can’t breathe”.
Non giriamo la testa, non chiudiamo gli occhi.
Coltiviamo ogni volta l’incredulità, il disagio, il senso di dolore profondo e di ingiustizia, lo smarrimento, lo sconcerto. Usiamo gli occhi e le orecchie per percepire il grido di aiuto, e la bocca per diffonderlo ancora di più.
Non lasciamo che tutto ciò diventi normale.
Rest in power, George Floyd.