Il pubblico della poesia#7: I Mitilanti III

Una riflessione collettiva. Settima puntata (terza parte)

 

di Adriano Cataldo

 

La poesia fa male

Nanni Balestrini

 

Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?

In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.

Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.

Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.

Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.

Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.

In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.

Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.

 

Dopo Andrea Fabiani e Filippo Lubrano, proseguiamo a intervistare I Mitilanti. In questa terza e ultima puntata conosceremo Francesco Terzago, che ha pubblicato su: Nuovi Argomenti (Mondadori), Italian Poetry Review (Sefe edizioni/Columbia University), e ClanDestino (Raffaelli). Ha scritto di poesia di strada e street art per Boll ‘900, (Università di Bologna). Fa parte del comitato di ricerca sulla creatività urbana Inopinatum (Università Suor Orsola Benincasa). Su atelierpoesia.it e leparoleelecose.it sono disponibili alcune sue traduzioni, dal cinese, dei versi di Ren Hang. Alcune sue poesie sono uscite per Nazione Indiana. La sua raccolta, Caratteri, pubblicata con Vydia, introduzione di Gian Mario Villalta, è stata premiata dal Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna come migliore opera prima del 2019 (premio Elena Violani Landi). Ha pubblicato tre racconti fotografici: Euridice, su leparoleelecose.it; La mobilità del marmo, In Pensiero (Squilibri) e, con il fotografo Jacopo Benassi, Anche loro sono riders (Riders).

(nella foto, I Mitilanti. Da sinistra, Alfonso Pierro, Francesco Terzago, Andrea Fabiani, Andrea Bonomi e Filippo Lubrano)

Terzago ha preferito scrivere un breve saggio come risposta alle tre domande che di consueto poniamo ai nostri intervistati. Vi auguriamo buona lettura.

 

"visiva, concreta, aleatoria, evidente, fonetica, grafica, elementare, elettronica, automatica, gestuale, cinetica, simbiotica, ideografica, multidimensionale, spaziale, artificiale, permutazionale, trovata, simultanea, casuale, statistica, programmata, cibernetica, semiotica".

 

Anna e Martino Oberto, un inventario della poesia sperimentale (In Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Salerno, Rumma, 1969).

Non parlerei di scarsa qualità dei testi, è una definizione con una premessa metodologica che non condivido, un pregiudizio di conferma.

Scarsa – nel momento in cui la si osserva da una posizione privilegiata. Dal punto di vista linguistico nulla voglio togliere all’importanza che esperienze illetterate, ingenue, spontanee, non intellettualistiche, devono avere in una prospettiva di politica culturale; queste possono avvicinare numerose persone a scritture più sorvegliate (non solo scritture), di qualità differente e più vicina al sentire di una élite culturale.

Penso al disegno: ognuno di noi, almeno una volta, ha tracciato un fiore con la matita; quel fiore è, innegabilmente, un disegno, disegno sono le illustrazioni di Pazienza o i lavori di Rothko (chiedo scusa per la semplificazione) – i temi sono: qualità e costruzione sociale.

In alcuni contesti comunicativi, la rappresentazione spontanea di un fiore dà più godimento di una visita alla Tate Modern; sono esperienze estetiche differenti ma che appartengono, seppure a grande distanza, allo stesso insieme; ciò che cambia sono le persone e gli strumenti cognitivi di cui possono, o desiderano disporre (senza lambire il tema della sospensione dell’incredulità che, per la sua importanza, andrebbe affrontato a parte: solo una nota, se assisto a un poetry slam io mi diverto e non paragono i testi dei partecipanti con quelli di Sereni).

Un altro esempio: le arti marziali; nel caso delle discipline tradizionali l’efficacia in combattimento nel tempo non cresce alla stessa rapidità delle discipline di lotta perché, le forme che si acquisiscono, possono essere, per le modalità con le quali sono insegnate, l’addestramento a un linguaggio non verbale; mosse che, per condurre a un risultato preventivato, devono occorrere in uno specifico contesto sociale – il gruppo che ha acquisito nel tempo la capacità di rispondere a specifici input in modo univoco (o limitato, come negli scacchi); è linguaggio codificato e riconosciuto da un gruppo di praticanti, liturgia o gioco.

Lo stesso non vale per le discipline di lotta propriamente dette, queste si prefiggono un altro fine. Da persona che ha praticato aikido e assistito, quando si trovava in Cina, a diversi seminari universitari di kung-fu, mai vorrei salire sul ring per sfidare un pugile o un praticante di jiu-jitsu brasiliano: riconosco che si appartiene allo stesso ecosistema ma gli scopi che ci prefiggiamo (che potevo prefiggermi), allenandoci, sono molto distanti; l’aikido – per esempio – non è una disciplina che, nelle sue forme di pensiero, contempla la sopraffazione dell’avversario. È una forma di meditazione in movimento dove la componente spirituale, e culturale, è imprescindibile. Così come è imprescindibile, in questo do, la concretezza delle leve articolari per edificare la sua narrazione: la poesia accademica, nel parallelismo, è l'aikido.

La poesia è un fatto sociale. Si costruiscono sodalizi, alleanze, strutture relazionali che, in molti casi, decretano, nella cooptazione, il valore e la capacità di circolare, presso gli specialisti, di alcune proposte; un gruppo sociale si distingue per fare un utilizzo simile del linguaggio e per condividere, tra le altre cose, lo stesso insieme di credenze. Tentiamo uno sforzo di decostruzione, distanziamoci, psicologicamente, dall’oggetto di indagine cerchiamo di essere meno letterati e più sociologi o linguisti.

Dunque, credo che sarebbe più significativo interrogarci, nell’ambito della poesia popolare, sulle forme che assume il fenomeno e considerare, per quanto possibile, anche ciò che lo segni in modo positivo; questo enorme corpus di testi, diffuso nelle reti sociali e, in alcuni casi, sotto forma di libroide, attesta un interesse sempre vivo per la poesia. Ha confini porosi, la poesia. È capace di accogliere esperienze mediali molto distanti tra loro. Così è, richiamando la metafora che ho già usato in questo scritto, l’idea moderna che si ha di combattimento, infatti rientra in questo contenitore anche ciò che non prevede sopraffazione né antagonismo, l’aikido, e senza che da ciò scaturisca un paradosso.

La poesia popolare risponde a urgenze differenziate che attraversano gli strati della società come una lama. È un fenomeno di massa, soprattutto per quanto riguarda la sua componente social – esclude un gruppo molto circoscritto, sovrapponibile – solo in parte – con gli studenti dei licei, poi con quelli delle facoltà umanistiche e con coloro che, per elezione, hanno deciso di occuparsi della varietà di manifestazioni dell’ingegno umano che, da una componente verbale e per una affinità a un sentire (gruppo sociale), sfumano in direzione di ogni arte.

Sulla centralità della componente verbale ho – in termini estetici – qualche dubbio, perché, nell’epoca che stiamo attraversando, il mio invito sarebbe di discutere maggiormente di poetiche e non di poesia.

Ovvero tentare di comprendere – anche dal punto di vista neurologico – che cosa accomuni, lato ricevente, la lettura di uno o più versi con la visione (senza dimenticare il coinvolgimento degli altri sensi) di un quadro, di una statua, di una installazione, di una performance, di un momento di epifania urbana. Discutere inoltre quali relazioni si instaurino tra ricezione/interpretazione ed eventuale volontà autoriale (distinzione necessaria, perché una poetica può esistere sia come fatto puramente individuale e non di trasmissione, sia che si consideri chi produce l’opera che chi si limita a riceverla; anche, lo stupore che può riservarci un tramonto, uno scenario naturale nel quale ci imbattiamo casualmente, che cosa accende in noi, e perché? Sappiamo che la percezione del bello, salvo un universale richiamo all’armonia delle forme, dipende dall’educazione che abbiamo ricevuto all’utilizzo della vista).

 

Immaginare dei dispositivi critici, degli impianti di ricerca, capaci di indagare l‘eterogeneità di fenomeni, capaci cioè di consentire la debita valutazione a ciò che c’è di anfibio, ibrido, di tutte le componenti che concorrono nell’atto di significazione è una impresa ardua ma che andrebbe intrapresa.

Citando Spatola, ripreso, da Giovanni Fontana in un approfondimento sul concetto di “poesia totale”: “cerca oggi [la poesia n.d.a.] di farsi medium totale, di sfuggire a ogni limitazione, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura, in un'aspirazione utopistica al ritorno alle origini”, ancora “la nuova poesia […] prende l'avvio, nel suo processo di formazione, dai linguaggi tipici di altre arti, in particolare delle arti plastiche, per farsi «oggetto» che rifiuta la lettura". Sì, sto divagando.

 

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Accoglie, in sé, la poesia popolare, lo spazio del desiderio di un pubblico ampio ed eterogeneo, non solo giovanile. Chi gode di popolarità in questa dimensione, pensiamo agli insta-poet, benché non sempre il loro prodotto rompa il confine tra le generazioni, deve il carattere del suo successo, e insuccesso, all’architettura del mezzo di cui si serve (o è il mezzo che si sta servendo di lei/lui?), ciò che produce – in altre parole – sarà accolto da coorti, insiemi di individui accomunati da un sentire; esperienze e modalità, in prospettiva sociolinguistica, nell’intendere e utilizzare l’italiano.

 

Dovremmo indagare 1) il ruolo che ha la scuola dell’obbligo nel costruire una percezione dei confini della poesia (il campo della poesia) 2) quanto influisca, sullo stesso piano, un ulteriore ammaestramento, quello accademico che, nel nostro paese è in massima parte filologico (non linguistico, mai interdisciplinare); lateralmente, 3) la forza che si ha di promuovere alcune produzioni in una stagione in cui la funzione culturale della grande editoria è, più che mai, serva del profitto.

Mi spiego meglio. Credo sia possibile proporre, i testi (cioè al medium scritto) di alcuni autori recenti, [1] facendo sì che questi ricevano un apprezzamento trasversale.

Fare ciò nelle scuole secondarie di secondo grado e presso quella moltitudine che, non disponendo di una migliore offerta, ogni giorno è spettatrice dei versi pubblicati nelle reti sociali.

Viceversa, non è possibile, se non nello spazio circoscritto dello studio linguistico e della sociologia, ritenere il lavoro di un Francesco Sole o di un Gio Evan, altrettanto urgente. 

Siamo dunque testimoni, nel primo caso, di opere che hanno un valore d’uso capace di rispondere all’urgenza di un pubblico sia generalista, sia specialista (in virtù dei suoi molteplici layer – piani di lettura), mentre – nel secondo – di azioni di carattere imprenditoriale più circoscritte (e di rapida obsolescenza, come un like); in questo schema, inoltre, potranno trovare spazio, all’estremo opposto degli insta-poet, alcune scritture di ricerca, come quella asemica. Non solo, la poesia di strada, e numerose altre forme espressive si potranno incontrare in questa geografia.

Dicevo poesia online e reti sociali, occorrono alcune precisazioni: online esistono numerosi siti che si prodigano nel diffondere la cultura poetica (Nuovi Argomenti, Le parole e le cose, GAMMM, La balena bianca, Poesia del nostro tempo, Argo, Atelier, ClanDestino, Critica Impura, Neutopia, e molti altri).

Non è mai stato possibile, come ai nostri tempi, scovare nel web un quantitativo così grande di buoni e ottimi versi, di poesia, di poetiche.

Dall’altro lato, abbiamo lo spazio di reti sociali come Instagram e TikTok – dove è sì possibile operare una politica culturale apprezzabile (sia se si veste i panni degli specialisti che quelli del pubblico generalista a cui tali istanze si rivolgono) ma dove i limiti che il medium impone sono molto più stringenti, soprattutto nei termini di favorire prodotti mediali di rapido deterioramento. Cioè che devono essere consumati entro breve tempo dalla loro diffusione. Prima che il pubblico, cioè chi riceve questi input, sia soggetto ad altri, concorrenti [di input]. Questo obbliga l’emittente a produrre di continuo nuovi branoidi, tornando a Francesco Sole e Gio Evan, per assicurare, alla community, ai seguaci, una sufficiente frequenza di stimoli. Assicurare così che il prodigio dell’ingegneria sociale (la rete sociale) disponga di sufficiente carburante: è una gamification, un motore che continua incessantemente la sua corsa grazia al rilascio – costante -, nei corpi del pubblico, di ormoni.

Così si genera quella dipendenza che, con un cocktail equilibrato di endorfina e dopamina, mostra nel desiderio catartico di una espressione poetica vulcanica (quella dei sopracitati), la malevola influenza del Doppelgänger tecnologico. A esso si deve controllo sulle menti, perché a noi si mostra con il volto sornione di una innocente poesiola; questi sono fatti che riguardano, non possiamo dimenticarlo, la biochimica – non è possibile alcuna scissione tra membra e mente (benché l’ingenuità di molta fantascienza stia proprio in questo fallace presupposto).

Proseguendo il ragionamento, la poesia popolare attinge, troppo spesso, a un immaginario asfittico, già decodificato, di esperienze – cioè il regime delle abitudini plasmato dai rapporti di potere della società neo-liberista – le, come si sono definite a partire, dal 1983 “tradizioni inventate” e “nuove tradizioni” – espressioni sovversive di Eric Hobsbawm e Terence Ranger.

Sicuramente è ben scritta, la poesia popolare, ed è, sul piano linguistico, poesia a tutti gli effetti (possiamo dire lo stesso di buona parte della pubblicità e della propaganda). Ben scritta nei termini in cui ciò significhi un input pesato per dare godimento a una moltitudine, prodotto editoriale che raggiunge un dato fine: essere letto, vendere; con ciò, non voglio però sostenere che si parli di buoni libri, la qualità di un’opera è di per sé indipendente dal suo successo di mercato.

La lingua, questo sì, la trovo interessante, una costante tensione tra un “letterariese” acquisito in forma passiva (sui banchi di scuola) e necessità espressive dettate, come già abbiamo visto, da immediatezza dei mezzi e assenza di mediazione; un italiano che confina, o si sovrappone, con l’oralità di ritorno tipica delle reti sociali; dunque il neo-standard, il sub-standard; una povertà lessicale ponderata che, per abbraccia temi universali, inevitabilmente li semplifica costringendoli nell’angusta gabbia dell’iperonimia.

In termini di critica culturale, infine, sentimenti nazionalpopolari che si tingono, inevitabilmente, di patriarcato, consuetudini che, nel loro ripetersi, colonizzano il futuro con una visione, della vita emotiva, dei rapporti tra generi, di assoluta retroguardia.

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Chiudo con una nota: desidero approfondire l’uso che ho fatto del termine letterariese che, in De Mauro, è una lingua letteraria strutturata – tale lingua, in una età, per la letteratura italiana, pulviscolare, dove ogni autore si muove liberamente tra molteplici strumenti espressivi (non solo verbali) è un retaggio di stagioni che, appunto, si incontrano nel contesto della scuola dell’obbligo; dove le si affronta, in molti casi, in una forma semplificata per ragioni didattiche e non scevre da una volontà pedagogica conservatrice.

Dunque la poesia popolare cerca un compromesso tra tre componenti: 1) ciò che viene ritenuto, implicitamente, poesia (presso un pubblico ampio e mai specialistico) un’idea che ci viene inculcata in età scolare; 2) le forme espressive che è possibile trasmettere, con buoni risultati di audience nelle reti sociali; 3) una varietà linguistica piana, sia nella componente sintattica che lessicale (unità lessicali superordinate: fiore in luogo di tarassaco).

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[1] che hanno prodotto dal dopoguerra a oggi, e che hanno ricevuto un’attenzione da parte dell’accademia o di alcune sue componenti. Per la componente verbale: Da Pavese a Pasolini, per arrivare ad alcuni esempi della neo-avanguardia, Erotosonetto di Sanguinetti; qualcosa di Volponi, di Bellezza, di Caproni, di Raboni, della Rosselli, la Anedda, la Valduga, Pagliarani solo per citare i primi che mi vengono in mente.

E moltissimo di ciò che si sta scrivendo adesso – perché non Ceni, la Carnaroli, Turina perché non I padri di Giulia Rusconi o Noemi de Lisi, o Maddalena Lotter o Ortore e Castiglione o Tipaldi o Di Dio; ma ancora, Franzin o Bertolani o Andrea Inglese e Gherardo Bortolotti; o Mazzoni o Mozzi, o Luigi Nacci o Targhetta o Kobarid di Fantuzzi; poi Villalta e Miladinovic e perché non Savogin e Stera e Balestra – moltissime altre esperienze, la Calandrone, la Menicocci, Teti, – e molti molti altri che mi dispiacerò di aver scordato.

Il punto è che una lista sterminata di nomi non vale niente, se non c’è il desiderio di raccontare questi lavori, di fare sì che arrivino all’orecchio di chi li possa apprezzare, e questo è uno sforzo di militanza che in pochi, pochissimi, sono disposti a fare.