Il pubblico della poesia#8: Rosaria Lo Russo

Una riflessione collettiva. Ottava puntata

 

di Adriano Cataldo

 

La poesia fa male

Nanni Balestrini

 

Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?

In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.

Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.

Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.

Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.

Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.

In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.

Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.

Dopo i Mitilanti, la nostra ottava ospite è Rosaria Lo Russo, poeta, traduttrice, saggista, lettrice-performer, attrice, è nata nel 1964 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Sanfredianina, in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano (Crocetti, Milano 1996); Comedia (Bompiani, Milano 1998); Dimenticamiti Musa a me stessa (con sedici disegni di R. Ranaldi, Edizioni Canopo, Prato); Melologhi (Emilio Mazzoli, Modena, I Premio “Antonio Delfini 2001”); Penelope (Edizioni d’if, Napoli 2003); Lo Dittatore Amore. Melologhi (Effigie, Milano 2004, con cd audio); Io e Anne. Confessional poems (Edizioni d’if, Napoli 2010, con cd audio); Nel nosocomio (Milano, effigie 2014); Crolli (Le Lettere, Firenze 2012) e Poema (Zona, Arezzo 2013). Sue poesie, traduzioni e saggi critici sono apparsi su numerose riviste e antologie. Ha tradotto Anne Sexton, Erica Jong e Alfonsina Storni.

(Rosaria Lo Russo, foto di Dino Ignani)

Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?

Ci sono sempre state le mode. Specialmente quando un fenomeno è legato alle persone giovani. Questo non spiega tutto, ma molto. Non chiamerei poesia popolare questo fenomeno anche se la dicitura è ragionevole se si pensa al fatto che la fruizione di questa poesia, che continuerei qui in mancanza di migliore definizione a chiamare performativa, nasce sui palchi e/o in piazza piuttosto che sui libri. Però la poesia popolare, giullaresca per esempio, era sì un fenomeno di massa in piazza ma si avvaleva di stilemi precisi, tant’è che è rimasta nelle storie letterarie. Viceversa i libri di certi sedicenti poeti che vendono sono raccolte di battutine spiritose per persone di poco spirito oppure banali aforismi, senza alcuno stile linguistico se non il basso parlato. Si dicono e sono detti poeti perché l’analfabetismo di ritorno da circa vent’anni fa strage. E temo che sarà ulteriormente e velocissimamente incrementato dallo stato covid 19 in cui parrebbe si perdurerà alquanto e che è occasione di letture approfondite solamente per chi era già parecchio attrezzato mentalmente come lettore.

Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?

Poesia è arte del linguaggio. Arte dell’innovazione linguistica. Serve soltanto a guardare il mondo, interiore esterno, con occhi e mani linguistici capaci di dare a chi legge oltre che a chi scrive un punto di vista nuovo e originale sulla realtà. Fare poesia, sia scrivendola che leggendola, non serve ad altro, ma questo a cui serve è la quintessenza dell’intelligenza umana, ragion per cui prima che fosse sminuita dagli analfabeti di ritorno era normale che anche gli scienziati se volevano capire la realtà numerica del mondo si rivolgessero anche alla poesia (che essendo ritmo è numero): e non parlo di prescienza, ma di Einstein. Poesia significa linguaggio quindi pensiero, pensiero logico e razionale oltre che emotivo. Non dovremmo aspettarci di meno dall’attività cerebrale indotta dalla lettura e dalla scrittura di poesia. leggere poesia è fondamentale per scriverla. Altrimenti si scriveranno sfoghi emotivi banali e totalmente inutili sia per lo sfogante che per le vittime del suo sfogo. Se la poesia non raggiunge più il pubblico significa che il pubblico è stato reso ignorante di poesia dalla società in cui vive e che i singoli non hanno potuto o saputo difendersi dall’ignoranza.

La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?

L’opera letteraria didascalica, ovvero con intenti didattici, non l’ho mai amata ma ha avuto e forse talvolta ha ancora senso, ma quale senso io non saprei, certo se un’opera didattico-didascalica non ha anche una tenuta linguistica poetica tanto vale fare un tutorial piuttosto che scrivere. L’immediatezza di un tutorial è consona al mezzo, mentre l’immediatezza di comprendonio in poesia è un controsenso: il linguaggio poetico deve cambiare i punti di vista usuali altrimenti non agisce. Per questo Balestrini ironizzava sul pubblico della poesia e avvertiva il pubblico irrisorio della poesia che quest’ultima fa male: fa male perché è un insight deflagrante sui luoghi comuni della realtà, volto allo smantellamento dal cervello dei luoghi comuni. Meglio i tutorial che la poesia per gli intenti sociali. Chiunque proclami che la sua poesia ha un intento sociale è ipocrita, un o una manipolatore/trice del consenso. L’oscurità da svelare-rivelare, la difficoltà, la profondità sono ciò che fa della poesia una necessità psichica profonda, linguistica essendo la nostra psiche formata da oggetti linguistici. L’unico autentico intento sociale della poesia dovrebbe essere allenare il cervello al pensiero, emotivo e razionale. Un cervello allenato al pensiero razionale e alle scelte consapevoli, etiche, politiche eccetera, sarà capace di orientarsi meglio nel mondo.

***

Leggendo le risposte di Lo Russo risulta urgente fare una precisazione nella nostra definizione di poesia popolare. In ottica storica, vale quanto scritto nell’intervista, con l’esempio della poesia giullaresca. A questa potremmo aggiungere due altri esempi: gli sforzi fatti nella metà del 1400 per mostrare la dignità letteraria del cosiddetto italiano volgare oppure la poesia cubana di improvvisazione di cui abbiamo scritto nelle precedenti puntate. Si tratta di esempi capaci di raggiungere un pubblico ampio e mantenere una certa qualità, perché possiedono stili e metriche che le rendono distinguibili in positivo, in termini di qualità, dalle scritture di Gio Evan. Non sono però scritture laureate perché una buona parte della critica non le riconosce come poesia di qualità. Porre l’attenzione sugli stili ci porta a rigettare la definizione di poesia popolare. Se invece ci si concentra sull’effetto e sulla portata sociale delle scritture, la definizione resta valida.

Il nostro intento è ovviamente muoverci nella direzione dell’analisi del tipo di ricezione presso il pubblico. Non si tratta di giustificare le scelte verso un certo tipo di consumi culturali di qualità bassa, ma di comprenderle. Ci sono diversi modi per farlo.

Un modo per farlo è puntare il dito contro l’analfabetismo, il deterioramento del pubblico stesso, come scritto da Lo Russo.

Un secondo modo è adottare la prospettiva di Terzago della precedente intervista, ponendo enfasi sulla dimensione sociologica delle poetiche.

Un terzo modo è comprendere le esigenze di un pubblico alla ricerca di una narrazione del proprio sentire. In questo contesto, Gio Evan racconta alle masse dei nostri giorni una storia molto più valida di quella che potrebbe raccontare Eugenio Montale.

Questo perché, come andiamo scrivendo da qualche mese, alla poesia è stato delegato un ruolo di cura, mentre la poesia dovrebbe far del male. Come scrive Lo Russo, la poesia è pensiero, lei stessa scriveva qualche anno fa a proposito di un mandato sociale del poeta, che non è educazione delle masse, ma nemmeno un’opera puramente cosmetica di descrizione dello stato delle cose.

In un libro recentemente pubblicato, si parla di “abitare poeticamente il mondo”. Abitare non vuol dire sentirsi a casa, lo abbiamo scoperto o riscoperto in questi mesi. Si tratta di una forma di conflitto, di addomesticamento, che può dare un senso al mondo, ma non curarlo e soprattutto non curare noi.