La poesia fa male
Nanni Balestrini
Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?
In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.
Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.
Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.
Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.
Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.
In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.
Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.
Dopo Rosaria Lo Russo, la nostra nona ospite è Maria Grazia Calandrone: poetessa, giornalista, drammaturga, autrice e conduttrice Rai e regista di videoreportage per «Corriere TV». Tiene laboratori di poesia in scuole pubbliche e carceri. Premi Montale, Pasolini, Trivio, Europa, Dessì e Napoli. Ultimi libri Il bene morale (Crocetti 2017 e 2019), Gli Scomparsi – storie da «Chi l’ha visto?» (pordenonelegge 2016), Giardino della gioia (Mondadori 2019 e 2020), Fossils (SurVision, Ireland 2018), Sèrie Fòssil (Aïllades, Ibiza 2019) e l’antologia araba Questo corpo, questa luce (Almutawassit Books, Damasco 2020). Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi paesi. Ha curato una rubrica di esordienti per il mensile internazionale «Poesia».
(Maria Grazia Calandrone)
Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?
Il contenuto: sentimenti. La forma: semplice.
Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo comprato i Baci (cioccolatino) più per la breve sentenza che avvolge il cioccolatino, che per il cioccolatino, pur dotato di indiscutibile attrattiva. Vuoi che affidiamo la nostra animula al vaticinio che proviene da una confezione industriale e non la affidiamo a un parallelepipedo stampato che porta la rassicurante dicitura «poesia»? La scuola insegna che i poeti la sanno lunga sui sentimenti. E gli editori che stampano quei libri tengono in gran conto questo dato. Gli editori arsi dalla passione della bellezza sono sempre meno. Alla fine dell’anno di bilancio, conta non chiudere. Gli editori stampano quel che presumono si venda.
In tempi di Covid più che mai, ma da almeno due secoli, abbiamo costruito una società dalla quale siamo sopraffatti. Poiché siamo animali psicologici e abbiamo bisogno di comprensione e conferme, abbiamo in primo luogo urgenza di specchi, di verificare se pure un altro sente quello che noi sentiamo. Lo stile, cioè il modo attraverso il quale passa questa dose di conforto, è spesso irrilevante. Anzi, meglio la capiamo, più il sollievo è immediato. Sarebbe come controllare com’è vestito chi ci sta passando il metadone e rifiutarci di riceverlo se il donatore non è elegante.
Paul Celan scrive che non esiste differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano. Differenza di principio. L’impulso è lo stesso. Il risultato, no. La differenza sta nell’abito che indossa – nel caso nostro, nelle parole che pronuncia – chi stringe la mano. Inoltre, eventualmente la poesia finisse per salvarci (ammetto che sia una possibilità concreta), in principio è un salvavita contorto, perché ci salva costringendoci a vedere, spingendoci nelle profondità, nostre e dunque dell’umano. E, dentro un essere umano, non si sa mai che si trova. Auspicabile essere serenamente preparati al peggio.
Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?
Certamente. Non è vero che le vendite di poesia siano scarse. I poeti dei quali i lettori si fidano, vendono migliaia di copie. Contemporanei inclusi. Inoltre, le vendite di poesia non andrebbero misurate nell’immediato. In testa alle classifiche c’è quasi sempre Dante. Come afferma Pasolini, la poesia è una «merce inconsumabile». La poesia.
Piccola nota, al proposito: non sono d’accordo con l’espressione «buona poesia»: una serie di versi – o di versi in prosa – o è poesia, o non lo è. E come sappiamo se lo è? La lettura ad alta voce aiuta a saperlo. Se le molecole del nostro corpo rispondono al suono che la poesia sta facendo, eureka!
La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?
Quello del rapporto tra poesia e società è un crinale rischioso. I poeti che scrivono poesia con intento apertamente civile, passano quasi sempre sotto il fuoco di fila degli sguardi malevoli o irridenti degli altri poeti, che li sospettano di opportunismo.
Ovvio che scrivere di dolori altrui richieda una capacità totale di empatia, richieda di annullarsi e farsi carico di qualcosa che non sia la solita solfa dell’io. Alcuni riescono, altri no. Quelli che non riescono, tendono a diagnosticare: «narcisismo empatico» (versione dotta della dicitura «arroganza»), addirittura ruffianeria paratelevisiva.
Guido Mazzoni sostiene che i poeti non abbiano più mandato sociale. La mia esperienza nelle scuole contraddice ogni giorno questa affermazione. Anche in questi straniati giorni di DaD (Didattica a Distanza).
Nel 2011 scrissi un articolo per «il manifesto», nel quale descrivevo la poesia come azione politica, dunque come una forma – per quanto astratta – di resistenza pubblica. Credevo e credo che il duro lavoro sulla poesia contribuisca a renderci persone migliori. Per i motivi di indagine sopra espressi: primo fra tutti, fa crollare le sovrastrutture e le illusioni su noi stessi. Secondo: vanifica il preconcetto sulla realtà, cioè il giudizio passivo sulla realtà come ci viene data. I poeti smontano e ricompongono la realtà come un giocattolo, per assecondare una visione (prima critica, poi ontologica) delle cose, che precede le cose – e anche le parole che dicono le cose. Vanno – credo – nel cuore del silenzio. E lo traducono come meglio possono, senza smettere di affinare lo strumento, imparando continuamente, dalle parole, parole e cose che contraddicono parole e cose.
Col passare degli anni e, soprattutto, con la necessità di mettere in mano ai miei figli e ai ragazzi delle scuole un timone solido per navigare l’illusorio e mutevole mondo cosiddetto «reale», è cresciuta la mia necessità di intervento diretto sulle cose. Dunque dall’anno successivo, 2012, affianco l’attivismo politico e sociale al pur efficace strumento poetico. Ma questa è una scelta che deriva dalla mia esperienza e dalla mia struttura psicobiografica, non è un consiglio. In poesia, zero confini e zero regole. Nessun altro timone, se non l’onestà sabiana. Ognuno sa se ha trovato il cuore della cosa. E, se la cosa ha un cuore, è un cuore vuoto. Ce lo insegna la fisica. Non mettiamoci a scrivere, se non abbiamo il coraggio di affrontare e reggere il vuoto delle cose. Tutto il resto, sarà un magari ottimo “esercizio di stile”, non quel che intendo con la parola, concreta: «poesia».