di Michele Anesi – MoniQue Foto
Sono un grandissimo fan degli Incognito, da un paio di giorni. Prima della settimana scorsa, infatti, non li avevo mai sentiti nominare. Ammetto la mia ignoranza, what’s the problem? Questa, infatti, è una di quelle volte in cui sono fortemente convinto che l’ignoranza sia un bene: sono entrato nell’Auditorium Santa Chiara con sete di imparare, con il desiderio di lasciarmi stupire, di andare oltre la mia comfort zone. Le mie aspettative erano nulle: non ero lì per aspettare gli artisti al varco e giudicarli. La differenza è sottile ma sostanziale.
Potete dirmi che gli Incognito sono “la band Acid Jazz più longeva e importante del mondo”, ma nel mio cuore nulla cambia, nulla muta. Avrebbero potuto essere anche la band più malfamata del peggior quartiere di Caracas ma le emozioni che sono stati capaci di farmi provare rimangono intatte: quello che loro, più volte, hanno definito come “il linguaggio della musica” è riuscito a parlarmi perfettamente anche senza che io – o la maggior parte del pubblico presente nell’Auditorium lo scorso venerdì 17 marzo – sapessi bene chi fossero o che musica facessero. Non conosco il nome di tutte le loro canzoni, non conosco il nome di tutti i musicisti e i cantanti, ma una cosa la conosco a menadito: le emozioni che mi hanno fatto provare in più di due ore di incredibile concerto. A quelle si, a quelle so dare un nome. Si chiamano gioia, eccitazione, trepidazione, euforia, commozione, brividi lungo il corpo (è un’emozione?), empatia, amore. E sono profondamente convinto che questo valga pure per le centinaia di persone che hanno vissuto con me questo concerto: pochi erano lì a ragion veduta, molti, invece, erano i curiosi e i neofiti.
Non sono uno che ha l’abitudine di elogiare gli artisti, anzi, mi piace pensare di essere severo il giusto. Ma, come è giusto stroncare, è altrettanto corretto elevare agli onori della cronaca un act capace di trasformare un Auditorium in un piccolo festival con un centinaio di persone (in tutto i posti occupati erano più di 600) corse a ballare sotto il palco per tutta l’ultima mezz’ora di concerto. E nell'ora e mezza precedente gli applausi, le urla di approvazione e i boati si sono susseguiti a ritmo incalzante.
E’ difficile raccontare cosa è successo in quelle due ore: una freschissima macedonia di Jazz, Soul, Black Music, Acid, House, Disco e World Music. Un concentrato di energia in cui la band composta da tredici elementi – quattro cantanti, tre ottoni, un batterista, un percussionista, un bassista, due chitarristi e un tastierista (immaginatevi un invasatissimo Robert Dawney Jr. con un filo di pancetta e due mani magiche che volano sulle tastiere) – ha dato tante emozioni quante ne ha ricevute dal pubblico.
Arrivati a questo punto so che, se non ci siete stati, non avete capito nulla di quanto successo. Il mio intento, però, non è quello di descrivere la serata minuto per minuto ma vuole essere un incoraggiamento a lasciarvi andare, a spendere quei 15€ senza troppi pensieri: la musica è arte, la musica è vita e Jazz'About non porterà mai un artista che non riesca a suonare le corde del vostro animo. Pendetevi il tempo di scoprire, di vedere quanto è profonda la tana del bianconiglio.
Tutti coloro che c'erano venerdì scorso ve lo possono confermare: la tana del Bianconiglio è bellissima, ed è per tutti.