di Giulia I. Guerra
Il 2020 è stato un anno estremamente ambiguo per la Cina: nel primo semestre, lo scoppio della pandemia da Covid-19 e le sue nefaste conseguenze hanno seriamente compromesso la credibilità del gigante asiatico sul piano internazionale, accusato in primis dall’ex presidente Trump di aver creato il virus per attaccare gli avversari commerciali. Ma l’anno si è poi concluso con un aumento del PIL nazionale del 2,3%, segnando inoltre, come sottolinea il Fondo Monetario Internazionale, un aumento delle esportazioni superiore al 3%.
La galoppante ripresa economica ha permesso al Paese di riacquistare forza nelle relazioni con i suoi rivali, gli Stati Uniti primi fra tutti, ma ha anche risollevato un quesito già da tempo pressante: la Cina è destinata a diventare una superpotenza? Se sì, l’equilibrio delle relazioni internazionali dovrà mutare? Quali saranno le conseguenze per gli altri Stati, ma soprattutto, chi avrà beneficio e chi sarà messo in pericolo?
Un’ulteriore espansione porterà all’acquisizione di nuovo potere, dunque capacità di influire sulle decisioni delle altre nazioni, nonché sulla loro sopravvivenza – si pensi al destino di Taiwan, in questo caso.
Ma prima di porre al vaglio le possibili conseguenze di un’egemonia cinese, è importante capire se il Paese abbia il potenziale per affermarsi stabilmente come centro di potere delle relazioni internazionali.
Gli ostacoli interni del gigante asiatico
Nei fatti, la Cina deve tener conto di numerosi deficit interni, che la rendono dipendente dagli scambi con l’estero e che potrebbero rendere più ripida la sua ascesa.
La Cina soffre di deficit domestici di natura prettamente ambientale ed energetica, collegati in maniera più o meno diretta con il problema demografico della sovrappopolazione.
Divisioni geografiche e conflitti etnici
In termini d’estensione geografica è il quarto Paese al mondo, domina fisicamente l’Asia orientale e condivide i propri confini con ben 14 Paesi, dettaglio che giustifica un’attenzione millenaria, quasi un’ossessione del policymaking cinese, per il monitoraggio delle frontiere, come testimoniato dall’emblematica Grande Muraglia.
Quest’ampia distesa di terra ospita oltre 1,3 miliardi di persone, il 92% delle quali vive nelle regioni più ad est del Paese, area economicamente più sviluppata nonché maggiormente fornita di risorse naturali. L’8% della restante popolazione vive nelle aride lande occidentali, le cui condizioni geografiche avverse hanno storicamente segnato il sottosviluppo di questa zona. È importante sottolineare che proprio il 92% della popolazione è di etnia Han, l’etnia cinese più antica, nata proprio nella culla delle regioni cinesi orientali e che pertanto rivendica l’uso esclusivo di quelle terre. Il restante 8% è costituito da minoranze non-Han, divise fra loro su base religiosa (tibetani buddisti, uiguri) o etnica (kazaki, mongoli, coreani). Considerato il secolare trattamento sfavorevole degli Han nei confronti di queste minoranze, esse hanno dato vita a movimenti separatisti – si pensi al Dalai Lama – e comunità in remoti villaggi che rivendicano autonomia dal governo di Pechino, il quale da sempre mantiene il pugno duro per evitare tanto lo smembramento fisico del territorio cinese quanto possibili alleanze dei non-Han con altri Paesi capaci di minare l’ordine interno della Cina.
Ad oggi, il tentativo del governo centrale di piegare la strenua resistenza delle minoranze si è tradotto in una crudele azione di pulizia etnica, in particolare verso gli Uiguri, denunciata dalle organizzazioni umanitarie di tutto il globo.
Aging population e altre grane per Pechino
Il problema della sovrappopolazione non interessa soltanto gli scontri etnici, ma preoccupa Pechino in particolare per quanto riguarda la distribuzione di cibo, lo sfruttamento delle risorse energetiche e il sostegno ai processi di industrializzazione.
Come sottolineano gli studiosi David Hale e Lyric Hughes Hale, la sovrappopolazione è oggi causata soprattutto da un pericoloso processo di aging population, ossia un invecchiamento della popolazione che da un lato pone il problema del sostentamento di un gran numero di persone che non possono più entrare nel mondo del lavoro a causa dell’età avanzata, dall’altro quello di una popolazione giovane contenuta in termini numerici, come conseguenza della decennale politica del “figlio unico”.
Proprio la politica del figlio unico ha fatto sì che la maggior parte delle coppie investisse nell’educazione del solo figlio concesso dallo Stato, pertanto si è creata una nutrita classe di professionisti che ha lasciato importanti vuoti nel mondo dell’agricoltura e dell’industria, a scapito della necessità di avere una massiccia forza lavoro nelle fabbriche tale da mantenere la produzione interna della Cina competitiva sui mercati internazionali, poiché la prima fonte di rendimento del Paese è data dalle esportazioni, soprattutto nel settore manifatturiero.
Per far fronte al problema, il governo cinese impiega nelle fabbriche, spesso in maniera coatta, le minoranze non-Han, importando inoltre manodopera a basso costo dal regime nordcoreano, del quale la Cina è formalmente l’unico Paese con il quale esso intrattiene relazioni diplomatiche e mantiene aperte, pur in maniera estremamente limitata, le frontiere.
Tuttavia, questa scelta non è sostenibile nel lungo periodo, perché i tassi di crescita della Cina come superpotenza impongono una forza lavoro stabile e la capacità di mantenere un certo livello di ordine e prosperità fra la popolazione, che certo non può avvenire quando si fa pressione su gruppi di essa.
Inoltre, come sottolinea lo studioso Donald M. Snow, esiste un marcato razzismo fra i cinesi di etnia Han verso le minoranze, che ha impedito per decenni l’integrazione di queste nella società cinese, ma forme di razzismo e xenofobia esistono anche fra i diversi gruppi che compongono le stesse minoranze, per cui è ad oggi impensabile che lo sviluppo economico della Cina possa essere sostenuto nel lungo periodo da una società fortemente divisa internamente.
Il desiderio di emancipazione dei giovani Han
Inoltre, la nuova e giovane classe cinese, più istruita e connessa al resto del mondo attraverso i social networks, inizia a rifiutare il tradizionale legame dei cittadini al Partito Comunista, la cui relazione è stata per decenni dominata da un vero e proprio pactum subiectionis: prosperità economica e protezione in cambio di assoluta fedeltà e sottomissione al regime. Nei fatti, la prosperità promessa dal Partito non è stata garantita, e le dure conseguenze del Grande balzo in avanti maoista hanno causato la morte per fame o stenti di oltre 30 milioni di persone negli anni ’60.
Oggi la repressione del governo sulle libertà individuali dei cittadini non è più tollerata dai giovani Han, che scendono nelle strade e protestano nelle università dando voce al proprio desiderio di emancipazione. Una vera e propria questione di ordine sociale, ma anche di sopravvivenza del regime, come dimostrato dalla vivace resistenza di Hong Kong.
Una Cina che soccombe alle aspirazioni autonomiste di gruppi etnici o intere regioni è una Cina debole sul piano internazionale, almeno secondo la visione del PC, per questo contenere i problemi causati dalla sua massiccia popolazione è uno dei temi più caldi nell’agenda decisionale di Pechino.
Abbiamo osservato come l’imponente popolazione cinese costituisce un potenziale ostacolo per l’ascesa della Cina, in quanto disordini interni non possono garantire la stabilità del Paese sul piano delle relazioni internazionali.
Nel prossimo appuntamento tratteremo i deficit energetici della Cina e le loro implicazioni nei rapporti con gli altri Paesi.
Per approfondire:
Donald M. Snow (2014) Cases in International Relations, Chapter 3, pp. 50-59