di Lucia Mora
Martedì 25 Giugno si è tenuto a Padova E pensare che c’era Giorgio Gaber: uno spettacolo di e con Andrea Scanzi, al quale abbiamo fatto qualche domanda.
A che età hai conosciuto Gaber e quanto ha significato per la tua crescita?
L'ho conosciuto a 17 anni. Non ringrazierò mai abbastanza mio padre per avermi portato a teatro: vedere Gaber dal vivo ti cambia radicalmente la vita. Non mi aspettavo tutta quella emotività, quella forza, quel carisma. È sicuramente l'artista e intellettuale che mi è arrivato di più. L’ho poi conosciuto di persona, scoprendo così che era anche una bella persona, oltre che un grande artista. Quando se n'è andato, è stato come aver perso un parente stretto.
Se non ricordo male, Gaber aveva smesso di andare a votare. Aveva forse capito che non è più la politica il mezzo per cambiare le cose?
Questo bisognerebbe chiederlo a lui. Gaber smise di votare nel ‘74, l’anno in cui Polli d’allevamento provocò una frattura brutale con la sinistra. Di certo si era totalmente distaccato dalla politique politicienne. La sua poetica per certi versi è caratterizzata da una continua insistenza sul concetto di appartenenza, cioè sul desiderio di far parte di un progetto, di sentire gli altri dentro di sé. Dal ‘74 in poi non è più riuscito a realizzarlo. Questo è, secondo me, uno dei tanti aspetti che caratterizzano anche questo nostro presente. È stato molto profetico, soprattutto nelle cose che oggi ci fanno più male.
Di solito l'idea di cambiamento viene associata alle generazioni più giovani. In Cronometrando il mondo, Gaber – pensando a un ipotetico figlio – teme che per lui il ‘17 e il ‘68 siano soltanto numeri del lotto. Secondo te, i giovani che oggi scendono in piazza per l'ambiente o per la politica possono essere l’inizio di un cambiamento, o è solo qualcosa di passeggero e lontano dall’impegno di una volta?
Non credo che chi manifesta per il clima rappresenti la scintilla per un cambiamento. Rappresenta qualcosa di bello, perché si manifesta per qualcosa di profondamente giusto, ma non sono granché ottimista. Tra i giovani si riconoscono talvolta figure profondamente nobili e belle, ma sono delle “anime salve” sparute in mezzo a una generazione non dico disimpegnata, ma con altre priorità. Anche io a vent’anni mi sentivo parte di una minoranza, ma quelli che adesso si sentono come mi sentivo io allora – e non parlo di idee politiche, ma del sogno di cambiare veramente la vita, per citare Giorgio – sono ancora meno. In questo senso, mi sentivo molto solo a quell’età, e secondo me i giovani d’oggi si sentono ancora più soli.