Professione: giornalista di fronte.

Intervista al reporter Daniele Bellocchio

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Professione: giornalista di fronte.
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Fa parte della serie

di Cristina Degli Agli

Daniele Bellocchio, classe 1989,  giovane reporter, è stato ospite durante la kermesse di Piattaforme delle Resistenze Contemporanee a Trento all’incontro “Dietro le quinte dell’impegno civile”. – Conoscere in prima persona luoghi chiave della storia e dell’attualità porta a nuove consapevolezze, soprattutto per i giovani. 

Ai microfoni di Sanbaradio, Daniele Bellocchio  ci racconta la sua professione e non solo.
 

Cosa significa essere un giornalista di fronte?

Fare il reporter significa andare nei posti dove avvengono eventi che caratterizzano il nostro presente, la nostra contemporaneità. Raccontare, in prima persona , ciò che si sta vedendo/vivendo significa andare a toccare con mano quello che sta succedendo, averne una dimensione diretta (parlare con le persone,…). In poche parole “immergersi nella realtà”. Dopo essersi calati in questa nuova realtà, bisogna fare dell’informazione: cercare di diffondere ad un maggior pubblico possibile quello che si è appreso, si è vissuto sul campo.

 

In questi anni, hai fatto numerosissimi viaggi. Hai un ricordo particolare di queste tue esperienze?

Non c’è un viaggio in particolare che mi segni. A volte è difficile descrivere il proprio mestiere cercando di dare un valore in più ad un viaggio rispetto ad un altro.

“Le nostre vite sono formate dalle vite di tutte le persone che incontriamo” quindi, in qualche modo, la nostra vita è un mosaico fatto di tanti tasselli di tutte le persone che abbiamo incrociato.Questa è una verità assoluta. Ci sono però delle esperienze che possono toccare, segnare, coinvolgere di più rispetto alle altre. Un’esperienza per me toccante, dal punto di vista emotivo personale, è stato il lavoro svolto in Congo sugli stupri di guerra. Un lavoro fatto di tantissime interviste, tantissime ore passate a conoscere e creare un legame empatico con donne…ragazzine…bambine…vittime di una delle tragedie più violente: quella contro i più vulnerabili, contro delle persone che non si possono difendere. Quando ci si interfaccia, ci si pone in maniera così diretta nei confronti del male e lo ci si sente raccontare da persone che l’hanno vissuto sulla propria pelle, mettendosi a nudo, perché si  possa fare dell’informazione. Per me è un onere ma allo stesso tempo un privilegio (nel senso di raccontare le vite degli altri) ed una responsabilità.

Questa sì, è stata una esperienza impattante! PIù di altre in cui ci sono più rischi.La quinta essenza di questa professione è andare a raccontare le vite e l’umanità, anche quando quest’ultima è stata segnata da stigmati di orrore.

 
Ricordi la tua prima esperienza?

Certo! Come il primo amore, anche la prima esperienza di fronte non si scorda mai!

Era marzo 2012, avevo 22 anni. Destinazione: Somalia. In quel periodo non veniva dato tanto spazio alla critica situazione in questo luogo, così, decisi di capire cosa significasse vivere in una zona dove la guerra ha cambiato forma, identità. Il rischio attentati era altissimo: arrivato a Mogadiscio [ndr: capitale della Somalia], ci siamo trovati coinvolti nell’esplosione di un’autobomba. Un’esperienza intensa, unica e di “innamoramento”. Da questo viaggio c’è stata, in me, la maturazione, la decisione che quello sarebbe stato il mio lavoro.

 
Un consiglio per chi vuole intraprendere la carriera del reporter.

In primis, mi sento di dare un non consiglio: ascoltate poco i suggerimenti disfattisti! E’ vero, c’è una crisi nell’editoria, sono moltissimi i problemi. Però, non c’è problema maggiore che rassegnarsi ed ostacolare i propri sogni. Non credo nella logica del “tappar le ali”. Avere dei rimpianti nella vita, secondo me, non è un’ottima compagnia. E quindi, dedicatevi “anima e corpo” ai  vostri sogni. 

Un consiglio più pratico è quello di essere informati e curiosi. Avere una grandissima passione (che può essere la scrittura,  la fotografia o il video making). Fondamentale, infine, non avere dei pregiudizi. Non affrontate dei viaggi con la presunzione di sapere dove si sta andando.

 

Sei stato ospite di Piattaforme delle Resistenze, durante la presentazione del reportage realizzato dai partecipanti di On the road – sulle rotte dei migranti.

Sia il Festival delle Resistenze Contemporanee che l’esperienza “sulle rotte dei migranti” hanno dell’incredibile. Nel progetto “On the Road – sulle rotte dei migranti" si parla di profughi.[ndr: obiettivo del progetto è stato quello di capire il fenomeno migratorio andando il più vicino possibile nei posti dove tutto inizia (o continua)]Un nome che sentiamo ogni giorno in una maniera perversa. Si è persa l’identità umana del profugo. Noi utilizziamo una parola che è diventata imperante nel nostro quotidiano.  Ci siamo però dimenticati una cosa importantissima: chi è il profugo. Quali sono le storie che stanno dietro a queste persone.

Mettersi in cammino insieme a loro significa ritornare all’uomo. Non ci si limita alle cifre ma si ritorna all’uomo, guardandolo negli occhi,  ascoltandolo e conoscendolo per chi è realmente.