poetryTER

di Gabriele Barichello

 

Io venía pien d’angoscia a rimirarti
Michele Mari

 

“Sciacquati la bocca prima di parlare di Mari!” “Ma io devo solo scriverne.” “Allora lavati le mani e conta fino a mille.” Questa è la diatriba che percorre la mia mente nel tentativo di cominciare a dare sostanza a questa pagina bianca. Non si tratta di timore reverenziale, io Mari non lo conosco di persona, ne mi fregio di aver letto la sua intera opera, eppure qualcosa mi frena. Cominciando dovrei cercare adeguate parole per descrivere le sue: mi pare peccato infamare la sua esatta prosa con la mia zoppicante e l’esame che poi potrei darne non sarebbe tanto pregnante o profondo come meriterebbe. Quindi che fare? Io il mio contributo lo voglio dare lo stesso, ne percepisco l’urgenza più per me che per l’amore del divulgare. Sono entrato in contatto con questo autore per un passaparola da fonte attendibile che, definendo l’italiano scritto di Mari uno dei pochi che merita ancora d’essere letto, aveva colto la mia curiosità. Mi sono quindi avvicinato prima al suo più recente Leggenda privata e ne sono rimasto sfigurato per sempre. Il titolo del libro che mi accingo trattare, con le dovute cautele, è già un’evocazione nel titolo: io venía pien d’angoscia a rimirarti, Leopardi, quello originale. Che faccia tosta! Disturbare il poeta dalla misera sorte per puro diletto; qui io scivolai in un giudizio affrettato, la faccia tosta ce l’avevo io, e avrei dovuto scontare un silenzio d’ammenda almeno fino alla fine della lettura. Mari tiene il diario di Orazio Carlo, fratello minore di Tardegardo Giacomo, allora quattordicenne dedito allo studio matto e disperatissimo guidato da una dolorosa voracità nell’apprendere, e un altrettanto lancinante interrogarsi. Il ritratto del precoce è tremendamente coerente, portando un conoscitore medio del poeta come me a sentirsi anche un po’ preso in giro: dove avrà trovato Mari queste pagine scritte dal pugno d’Orazio? Manganelli le definisce un singolarissimo capriccio: e io che pensavo fosse un mio capriccio comprare la Nocciolata Rigoni in sconto. Capriccio qui in senso musicale, paganiniano, menti acute e dita fini a comporre pagine immortali, seppur capricciose. Mari non è avaro, lascia delle soddisfazioni anche a noi lettori del fine settimana: ho trovato grande ristoro nel leggere del mazzo di rose e viole portato da una fanciulla, del colle sul quale spesso il giovane si ritirava, o della pulsante ossessione per la Luna, luoghi a me familiari, mi hanno fatto rilassare. Meglio così diciamo, altrimenti sarebbero state 146 pagine solo per ricordarmi quanto poco conosco Leopardi, e quanto poco conosco in termini assoluti (e così è stato comunque, mi sono lasciato sedurre ben poco dagli scarni richiami a me noti). I discorsi diretti di Tardegardo sono millesimati, aprono una piccola finestra d’interazione con il poeta che già nella verde adolescenza trova la parola faticosa ma appassionata. Il 4 aprile il Conte Monaldo chiede ai suoi figli, durante un giro in calesse, chi tra Ariosto e Tasso meriti la palma di primo Epico della Letteratura italiana: “il mio cuore è con Torquato […] è sufficiente ch’io pensi alla persona od al nome per commuovermi tutto, e sentire una vaghissima melancholia molcermi il cuore”, così dicendo viene presto liquidato come femmineo, svenevole e tristanzuolo dal padre (culattina secondo il verbo di Mari Enzo). Eppure quattordici anni sono ancora acerbi, e negli occhi del poeta forse ancora una vaga speranza c’è, malcelata nel lasciarsi sfuggire che “la poesia, quella che salvò in gioventù l’infelice Torquato, forse salverà anche me…”.

 

Paradis artificiel(s)
Philippe Cohen Solel

 

Questo compositore francese si era già distinto, nel 1999, fondato il gruppo Gotan Project, per l’audacia con la quale aveva deciso di integrare musica elettronica e tango tradizionale, rispettoso sí della portata culturale universale di questa musica fatta di bandoneón, ma non meno intenzionato a farla diventare sua. Nel 2018 il progetto diventa ancora più osé e personale: Paradis artificiel(s) infatti è un susseguirsi di testi di Charles Baudelaire contaminati da basi elettroniche, a creare un’atmosfera perfettamente coerente con quella che ci possiamo immaginare circondasse il poeta nel XIX secolo, melodie mistiche e distorte, dove il fumo dell’hashish è palpabile; viene voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi andare ad un lento muoversi ebbro. Le collaborazioni sono molte e i nomi importanti pure, ma la delicatezza e la fedeltà con cui Cohen Solel ha cacciato nella foresta di simboli i testi rende sfocato ciò che circonda ogni singolo brano. L’oriente è ben rievocato in suoni metallici e vibranti, rende tutta la scenografia che sottende i versi ancora più cangiante. “L’invitation au voyage” e i suoi memorabili versi: aimer à loisir, /aimer et mourir in questo paradiso che ha i tratti di la splendeur orientale sono cesellati in cinque minuti e quattro secondi di meravigliosa musicalità. La presenza dell’oriente rientra dalla porta principale con Shizuka che alterna versi in lingue diverse in modi diversi, lirici ed evocativi o secchi e martellanti. Un album complesso ma perfettamente articolato in una serie coerente di visioni allucinanti, un’audacia che merita di essere conosciuta e riconosciuta come un altro singolarissimo capriccio, come a dire, a mento alto, che Baudelaire non deve vivere sono nei libri di testo di letteratura: un’opera universale è tale perché trascende le tre dimensioni dello spazio, raggiungendo una dimensione metafisica che valica anche la dimensione del tempo.  

 

Paterson 
Jim Jarmusch

 

Da Leopardi a Baudelaire fino ad oggi la poesia ha subito mutamenti nella forma espressiva che è impossibile riassumere in meno di qualche decina di densi volumi. Jarmusch, con il suo cinema indipendente, cerca di costruire la trama di questo film come una breve raccolta di versi, legando la poesia ad un suo corrispondente visivo umile. Paterson è il protagonista, Paterson è la piccola cittadina del New Jersey dov’egli conduce il suo autobus ogni giorno, in una serie finita e determinata di azioni e ripetizioni, dove la novità è lo sconvolgimento. Con appresso il suo taccuino quest’uomo, ex militare, ogni giorno cerca il pretesto per la vocazione poetica: i riferimenti non sono certo un ermo colle, visioni sensuali e distorte dalle droghe, si legano invece ad una scatola di fiammiferi, rivelazioni intense in un bar di provincia che rincorre la gloria affiggendo alla parete foto di celebri concittadini. Eppuresenza amore, avrebbe senso qualcosa? certo l’ambiente farebbe pensare al contrario, sulla fiancata dell’autobus campeggia una réclame che avverte di prezzi stracciati sulle pratiche di divorzio, una mercificazione di qualcosa di estremamente doloroso. Paterson sente di appartenere poco all’ambiente col quale interagisce ogni giorno, pare inebetito, sempre assorto, anche quando Laura la sua fidanzata (la sua Mosca) lo costringe ad ascoltare con tedio il suo imbarazzante tentativo di sfondare nella musica country (prima erano i muffin, poi l’arredo d’interni, che lo costringe a vivere in una casa a lui aliena). Un tentativo ambizioso per il regista statunitense, che tenta di coniare la poesia di Ron Padgett con un’immobilità perdurante, fissa, fatta anche di richiami sgangherati a Dante, a William Carlos Williams, a Petrarca (o Petrarci come lo chiama Laura, riconoscendo un’omonimia delle muse). Ma Paterson cosa ci sta dicendo? La sua poesia non è memorabile, lo ammette anche il regista quando mette in bocca ad una ragazzina i versi di Rain falls (staccate, così) che ha la stessa forza espressiva di quelle riportate sullo schermo. Allora forse il messaggio è un altro, è che la poesia è fatta di punti di vista differenti, e proprio nell’essere al limite dell’inadeguatezza trovano un’originalità prospettica. Un’originalità che si può trovare solo nelle parole originali, per questo consiglio la visione in lingua inglese, per riuscire ad afferrare quel flebile bandolo della matassa che Jarmusch ci sta allungando, ricordandoci, in un momento zen dissonante col resto della pellicola, a chiusura, che: tradurre la poesia è come fare la doccia con l’impermeabile.