Sono stato dovunque, io. Ho vissuto mille vite, tutte in viaggio, tutte da esule, vite altrui mescolate alla mia, e ora non so più distinguere.
La fuga e il ritorno. Queste erano le parole che mi giravano nella mente e nella bocca in quegli anni. Fuga e ritorno. Due parole che ora hanno il sapore della roba vecchia, hanno il sapore della polvere, ma fanno ancora male, toccano corde che credevo ormai arruginite.
Nella nebbia sempre più impenetrabile dell'autunno di Sarajevo stavo fermo in mezzo ad un luogo affollato. Forse era una piazza, forse era una strada. Forse non era neppure affollato, magari ero io che con la mente ci avevo messo tutta quella gente per sentirmi meno solo. Ah, com'erano buone le Marlboro di Sarajevo.
E in Germania, con Marisa, che odiava gli alberi e sognava il cemento. Com'è che diceva? “Come potevo spiegare a quella donna qualificata, zelante, tedesca fin nel midollo delle ossa, quello che ero io, un miscuglio di fragilità e insicurezza già in patria, ed ora in quel mondo ostile arrivata all'orlo delle mie capacità di sopravvivenza?” Il mondo ostile, già. E come potrebbe essere un mondo in cui arrivi da immigrato se non profondamente, inequivocabilmente ostile?
E i nostri amici dell'Alto Istituto delle Arti, con le loro storie piccanti sulla vedova Hoxha e tutti i personaggi che prima di morire avevano trovato conforto tra le sue gambe. Va e non torna, diceva Kubati. E non sono più tornati.
O a Marrakesh, quell'ultimo Thè a Marrakesh, che aveva il sapore indefinito della nostalgia e dei ricordi felici. Il più vivido è quella lastra a forma d'Africa e i due arabi sul marciapiede di fronte. Quante avventure in Africa.
E un'immagine su tutte. Anzi, un rumore. Il rumore del primo grosso calibro su Leningrado, uno sparo secco, come l'inferno, come il boato di un tuono lontano, che recò morte. La prima di tante altre, talmente inattesa che potrei anche dire di averla solo immaginata. Come ho detto, non so più distinguere.
Ora non so più dove sono, e come potrei saperlo? Parigi è un documentario perpetuo, senza più niente di precario, di povero, di decaduto, rimediato, tarlato dal vento, scartato dal destino. E così mi trovo a desiderare il niente degli altri che non hanno niente, così come allora non avevo niente neppure io. Solo storie. Di storie ne avevo, eccome, e allora non aveva importanza se erano reali o no. Nessuno mi conosceva da più di dieci minuti, nessuno poteva rinfacciarmi di non essere mai stato in quel luogo e di non aver conosciuto quella persona. Ero solo, ero lontano, ma avevo le mie storie.
Ora che mi rimane? Il bicchiere mezzo vuoto che ho davanti, voi ad ascoltarmi, e quel minuto di lucidità che mi basta per dirvelo: mai stato in Africa, io. Mai vista neppure Leningrado, o Parigi. E quelle sigarette? Mai fumato in vita mia. Al thè preferisco l'alcol, che brucia la gola e i pensieri.
Ho viaggiato stando qui, seduto a questo bancone, guardando la gente entrare e uscire, ascoltando le storie di altri. E nelle lunghe serate invernali, quando faceva troppo freddo per passare il tempo sulle panchine ghiacciate, ho letto qualche vecchio libro, dimenticato da altri, senza più copertina. Solo un paio, o forse tre. Spesso neanche per intero, solo qualche frase qua e la che mi è rimasta in testa, e si è unita a quelle due parole.
Fuga. E ritorno.
(scritto da Sebastiano Martinelli e Diletta Lazzarotto, utilizzando frasi e titoli dei libri letti durante le quattro serate della Strada d'Inchiostro)